Associazione Culturale Noste Reis - Lingua e cultura del Piemonte

Il caso piemontese

Ci s’innamora di un paese o di un popolo per la sua storia, per la sua arte, per la sua cultura, per la sua musica, per averci passato una bella vacanza. E alla fine, anche se non si conosce la sua lingua, questa viene vista con simpatia e fa capolino in qualche occasione. Un anno fa le canzoni avevano i ritornelli in spagnolo e quest’estate in francese.
Conosco fanatici dei manga che vogliono imparare il giapponese, mentre i corsi di arabo sono sempre più numerosi. Nei pub irlandesi di Torino non mancano le scritte in gaelico (che nessuno capisce).
È inutile ricordare l’inglese…

Ma qual è la situazione di una lingua regionale e qual è, più in generale, la posizione dei giovani verso le lingue minoritarie e i dialetti? Il caso piemontese può essere preso da esempio. Innanzitutto, il suo stesso status di lingua e non di dialetto è contestato.
Per i linguisti stranieri, per la Regione, per il Consiglio d’Europa è una lingua minoritaria, per lo Stato italiano e per i linguisti italiani un dialetto.
È una situazione condivisa da molti idiomi,
con tutti i caratteri per essere considerati lingue (e il piemontese questi caratteri li ha) ma che non vengono riconosciuti dallo stato e dall’ambiente accademico nazionale: è stato il caso del catalano ai tempi di Franco, mentre al giorno d’oggi a Barcellona si può vivere ignorando lo spagnolo. In Francia il corso, un dialetto di tipo italiano, viene insegnato nelle scuole pubbliche, l’occitano e il bretone no.

Tralasciando la questione del riconoscimento o meno di lingua minoritaria, dobbiamo vedere qual è l’atteggiamento della popolazione nei suoi confronti e soprattutto come si comportano i giovani.
La realtà piemontese è molto variegata. Da un lato, nelle città i giovani nati negli anni ’70 e ’80 non lo usano nella loro conversazione. Molti però lo capiscono o ne conoscono alcune frasi che usano in certe occasioni. Dopo ormai due generazioni dalle immigrazioni da altre regioni e le origini familiari non contano più nulla in questo. Sono abitudini personali o del gruppo. Si vede però anche un maggiore interesse per ciò che è la lingua e la capacità di parlarla. Le motivazioni sono le più varie: curiosità, ricerca delle radici, volersi differenziare in un mondo sempre più uniforme. Non ho mai trovato nessuno che si interessasse del piemontese per erigere barriere tra sé e gli altri. Nei centri minori, invece, dove abbiamo più giovani che parlano piemontese, ci sono due atteggiamenti: da un lato l’interesse per un aspetto della propria identità, dall’altro l’indifferenza per ciò che è considerato nulla più che un mezzo espressivo, ma questo è lo stesso comportamento di chi abita a Firenze e non gliene frega niente della bellezza della città. Infine abbiamo chi crede di modernizzarsi e raffinarsi rifiutando il piemontese
(«Il dialetto a me mi fa schifo») e poi scimmiottare folklore da importazione. Di certo, l’interesse per il piemontese è più forte in giovani scolarizzati e che conoscono numerose lingue. Non ci sono connotazioni politiche: c’erano giovani attivi nella valorizzazione della lingua sia a Tor Vergata dal Papa che a Genova nelle manifestazioni antiG8.

Atteggiamenti simili si riscontrano nelle altre realtà europee. Il disprezzo è la posizione più diffusa negli ambienti fortemente centralizzati o in cerca di promozione sociale. In francese patois, termine che ha così fortuna sulle nostre montagne, non significa affatto dialetto o lingua minoritaria, ma indica una versione corrotta e volgare della lingua nazionale, una parlata adatta solamente alle canzoni di osteria e alle barzellette, il mezzo d’espressione di vecchi e bifolchi. Paradossalmente, sono proprio certi impieghi delle lingue regionali a diffondere queste idee.
Non c’è nulla di più dannoso di un comico che si esibisce in scenette con dialetti e accenti esagerati e inventati, di una sagra inventata dalla sera alla mattina chiamata La Fera dij Cossòt (La Fiera delle Zucchine), delle stucchevoli riproposizioni di vita medieval-settecentesco-contadina con il geometra e la bidella in costume, dei proverbi e modi di dire spacciati per saggezza popolare dei bei vecchi tempi. «Il folklore è la morte vestita a festa», diceva un bretone.

Si è invece dimostrato un importante mezzo di valorizzazione il proporre la parlata, accanto alla lingua nazionale e alle lingue straniere, in occasioni come le manifestazioni sportive (in Irlanda i nomi delle squadre di calcio sono spesso in gaelico), le mostre d’arte (in Catalogna si scrive di archeologia solo in catalano), le grandi fiere alimentari e turistiche: queste sono attività culturali e sociali che godono di una buona considerazione e che poco alla volta diffondono l’idea della valorizzazione e tutela linguistica.

Un'altra diffusa sciocchezza è l’affermazione che le lingue minoritarie dividono le nazioni. In realtà, la situazione europea dimostra il contrario: è la loro scomparsa ad essere all’origine dei conflitti.
Oltre il caso della Jugoslavia, dove croati, serbi e musulmani parlano la stessa lingua, gli esempi d’Irlanda del Nord e Paesi Baschi sono significativi: nell’Ulster nessuno parla il gaelico da trecento anni e il basco è conosciuto da nemmeno un quarto della popolazione. Dove invece la lingua gode di buona salute, in Galles, Catalogna, Frisia, nessuno immagina realmente il distacco dalla Gran Bretagna, dalla Spagna, dall’Olanda. Ho avuto modo di discutere di ciò con una ragazza scozzese: da un lato aveva posizioni fortemente antiinglesi, dall’altro considerava buffa e anzi dannosa l’idea di tutelare il gaelico delle Highlands. È chi non ha una identità che entra in conflitto con gli altri se ricerca le proprie radici, mentre la lingua è uno degli elementi più importanti dell’identità di un popolo. Questi nazionalisti usano la lingua locale come bandiera, coniano qualche slogan, ma quasi sempre non la conoscono (è faticoso imparare una lingua, una persona bilingue è più tollerante perché quando pensa può farlo in due maniere…) e la limitano alle loro azioni più volgari (a ben vedere, ritorniamo al folklore dannoso).

Fenomeni analoghi accadono con i figli degli immigrati extraeuropei: in Francia e Inghilterra i problemi con le comunità straniere sono nate alla seconda generazione di immigrati, quando i giovani avevano perso la loro identità e non parlavano più la lingua, ma dall’altra non si sentivano in tutto francesi o inglesi. Sono rimasto sgomento quando ho sentito una peruviana affermare che suo figlio non avrebbe parlato spagnolo ma solo italiano. In Africa uno dei fattori della distruzione delle società locali è nelle città l’abbandono degli idiomi locali per forme semplificate di inglese o francese (se state ad ascoltare due immigrati dell’Africa subsahariana vi accorgerete che parlano una lingua europea).

Capita altre volte di trovare gente infatuata di qualche parlata straniera, gente che si indigna perché non gode di tutela da parte dello «Stato oppressore colonialista» (quante scritte in basco ci sono in alcuni ambienti!), ma guarda con la puzza sotto il naso la situazione del proprio territorio.
Conoscere, rivalutare, parlare la lingua locale non porta a vantaggi immediati, ma dà una visione del mondo al plurale, dove diverse identità e modi di vedere il mondo (perché questo è ciò una lingua produce) convivono. È stranoto che un bambino può parlare perfettamente due o tre lingue e che questo rende più agile il pensiero. Sinceramente, non si dica «Parli allora inglese o francese», perché quasi nessun genitore li parla correttamente!

Quando una lingua non è più parlata, è morta per sempre e con lei se n’è andata un’interpretazione del mondo. L’estinguersi di una lingua è come l’estinguersi di una specie animale, è irreversibile. Sappiamo che migliaia di idiomi scompariranno nel mondo entro la fine del secolo. Si va ad intervistare una ottantenne che è l’ultima a conoscere una parlata della Patagonia, ma nessuno pare accorgersi che lo stesso sta accadendo in Europa.
La pluralità linguistica è stata sempre uno dei caratteri culturali del nostro continente e ora sta scomparendo, ma per essere sostituito da cosa? Da un’uniformità all’americana? Dalla riduzione delle lingue a semplice mezzo espressivo, come un paio di scarpe che si può cambiare e buttare via? È una prospettiva inedita nella storia culturale continentale.

Cosa si fa per soddisfare l’interesse per una lingua minoritaria come il piemontese o farlo nascere?
Già abbiamo visto l’importanza di affiancare il piemontese all’italiano nelle manifestazioni culturali e la necessità di dimenticare il folklore. Ma il problema maggiore è che ormai la maggior parte dei minori di trent’anni non è più in grado di parlare la lingua e molti non la capiscono, tanto che mi è successo una volta di essere preso per francese da adolescenti dai cognomi smaccatamente piemontesi. Non è più una situazione limitata ai giovani, ormai ciò è valido anche per i genitori: si sono saltate due generazioni, evento disastroso (in Galles però abbiamo i nonni che parlano gallese, i padri che l’hanno perso per l’inglese, ma i nipoti che l’hanno recuperato).

Gli adulti hanno un atteggiamenti tipico nei confronti di un giovane che vuole parlare piemontese. Innanzitutto lo mortificano fin quasi a farlo desistere al minimo errore di pronuncia o di grammatica. Quindi gli propongono le parole più astruse del gergo e i proverbi più idioti. Infine sbottano:
Ma ‘l piemontèis a cambia da ‘n pais a l’àut, is capioma pa. Come tutte le lingue, il piemontese ha dei dialetti, ma le differenze tra questi sono minime (minori di quelle di molte altre lingue non ufficiali) e c’è l’intercomprensione. L’area piemontofona (le province di Torino, Biella, Vercelli, Cuneo, Asti e mezza provincia di Alessandria) è di dimensioni medio-ampie rispetto alle altre lingue minoritarie europee: più ampia delle aree di lingua basca e frisone, pari a quella bretone e gallese, inferiore solamente a catalano e occitano.

Superati questi ostacoli posti dall’autodenigrazione insita nell’animo dei piemontesi, cosa trova un giovane? Sono fondamentali le iniziative organizzate dalla Regione (che ha proclamato il piemontese lingua regionale), dalle amministrazioni locali e da numerose associazioni come l’insegnamento della lingua nella scuola dell’obbligo (più di cento classi dalla periferia di Torino ai paesini delle Langhe) a fianco dei corsi per i giovani più grandi e per gli adulti. Ma i corsi non sono certo il mezzo più accattivante, benché vi sia stata una buona presenza giovanile e alcuni degli insegnati avessero meno di trent’anni.

Anche una produzione letteraria di alto valore non è sufficiente. Nel 1904 il poeta provenzale Frederi Mistral vinse il Nobel per la letteratura, ma oggi in larga parte della Francia meridionale non si parla più occitano. Non è necessario conoscere l’inglese per leggere Shakespeare (ma come si fa a capirlo in traduzione? e poi, sarebbe sempre stato Shakespeare se avesse scritto in un’altra lingua?).
Ma queste sono considerazioni valide solo per una élite e dunque perfettamente inutili. Lo stato della poesia “dialettale” italiana è disastroso. Molti autori non sono affatto in grado di parlare la lingua nella quale scrivono e non gli interessa nemmeno: la loro è una lingua interiore, esclusivamente poetica.
È il trionfo della decadenza dell’espressione umana!
E d’altra parte, il valore di un idioma non si vede dalla sua produzione poetica, ma dalla prosa.
Nella prosa i soggetti trattati e le modalità espressive sono necessariamente più vari, anzi, infiniti e sono la palestra della lingua. Il piemontese gode di una ottima posizione, con la sua abbondante produzione in prosa di testi letterari, giornalistici, scientifici, ma come fare per farli uscire dalla cerchia dei piemontesisti?

La fortuna di una lingua si ha quando la sua importanza è universalmente riconosciuta dalla popolazione, è un fattore normale, quando non c’è più bisogno di associazioni e leggi di valorizzazione e tutela. In quel momento non si parla più di lingua minoritaria. È il caso (mirabile) del catalano negli ultimi anni. Anche perché se non c’è un sentimento diffuso, tutte le leggi sono inutili.
Da ottant’anni l’Irlanda si prodiga per la diffusione del gaelico, ma appena il 7% dei suoi abitanti è in grado di usarlo. Il bilinguismo in Val d’Aosta è fatto oramai puramente amministrativo: quante insegne di negozi ad Aosta sono in francese (cent’anni fa J.B. Cerlogne, il padre del valdostano, scriveva profeticamente «Quando scomparirà il patois, lo seguirà il francese»)? Al contrario, in Friuli, la vitalità della lingua si constata dalle scritte in friulano sui muri e negli striscioni dell’Udinese. È in queste espressioni scritte informali che si valuta la situazione linguistica di un popolo. Ma allora, che fare?

È la musica che in Italia e in Europa ha portato al risveglio delle lingue e delle culture locali in uno scambio bello e produttivo con le altre realtà nazionali e locali. Non tanto la musica tradizionale e tantomeno le perniciose canzoni nostalgiche e da osteria, ma la musica moderna, quella che si può escoltare alla radio, in un locale ai Murazzi o suonata da un gruppo giovanile ad una festa scolastica. Pensiamo a ciò che significano per le rispettive lingue e dialetti il genovese De André, i Modena City Ramblers, i comaschi Van De Sfrooss, i napoletani Alma Negretta e 99 Posse, gli occitani Lou Dalfin,
i gruppi heavy metal e punk baschi e bretoni.
Il Piemonte, assieme a eccellenti gruppi di riproposizione della musica tradizionale, ha band molto interessanti come i Mau Mau (dove però i testi in piemontese sono solo una componente della loro produzione) o i Farinej dla Brigna (a volte troppo boccacceschi), mentre numerosi altri non sono riusciti ad affermarsi fuori da un ristretto ambito locale.
I concerti e le feste organizzati da alcune associazioni e sperimentalmente da alcuni locali hanno avuto grande successo proprio tra giovani che mai si sarebbero avvicinati ad attività di tutela e valorizzazione di una lingua minoritaria.
È questo il percorso che un gruppo musicale giovanile può intraprendere, proponendo la sua musica, ma con i testi in lingua piemontese. Il resto verrà da sé.

La lingua è uno dei mezzi più importanti per evidenziare la propria identità in un mondo sempre più incuriosito e ricettivo verso le singole personalità come scudo contro un’uniformità strisciante.

A venta desse n’andi.

(Francesco Rubat Borel)

[Una versione più breve dell’articolo I giovani e le lingue minoritarie di F. Rubat Borel è stata pubblicata sul periodico Informagiovani, Torino, n. 6, 2001]

Ël cas piemontèis

Un a s'an-namora d'un pais o d'un pòpol për soa stòria, për soa art, për soa coltura, për soa mùsica, për avèj-je fàit na bela vacansa. E a la fin, bele ch'as conòssa nen soa lenga, sta-sì a ven vdùa con simpatìa e a-i fa babòja an quàich ocasion. L'ani passà le canson a l'avìo ij ritornej an ëspagneul e st'istà a-j j'avìo an fransèis. I conòsso dij patì dij manga ch'a veulo amprende 'l giaponèis, an tramentre che ij cors d'àrab a son viaman pi bondos. Ant ij pub irlandèis ëd Turin a-i manca pa le scrite an gaélich (che gnun a capisso). A fa pa da manca arcordé l'anglèis…

Ma cola ch'a l'é la situassion ëd na lenga regional e cola ch'a l'é, pi an general, la posission dij giovo an vers le lenghe minoritarie e ij dialet? Ël cas piemontèis a peul esse pijà da esempi. Prima 'd tut, fin-a sò status ëd lenga e pa 'd dialet a l'é contestà. Pr'ij lenghista foresté, për la Region, pr'ël Consèj d'Euròpa a l'é pro na lenga minoritaria, për lë Stat Italian e pr'ij lenghista italian a l'é mach un dialet. A l'é na situassion comun-a con vàire parlé, ch'a l'han tute le caraterìstiche pr'esse considerà dle lenghe (e ste caraterìstiche 'l piemontèis a-j j'ha pro) ma ch'a ven-o pa arconossù da lë stat e da l'ambient académich nassional: a l'é stàit ël cas dël catalan ai temp ëd Franco, an tramantré che al di d'ancheuj un a peul vive a Barcelon-a sensa savèj lë spagneul. An Fransa ël còrs, un dialet ëd tipo italian, a l'é mostrà a la scòla pùblica, l'ocitan e 'l breton nò.

S'i lassoma sté la cos-cion dl'arconossiment o nò 'd na lenga minoritaria, a venta vëdde col ch'a l'é ategiament an vers sta-sì da part dla popolassion e pi che d'àutr coma ch'as compòrto ij giovo. La realtà piemontèisa a l'é franch bigiolà. Da na banda, ant le sità ij bòcia nà dj'agn '70 e '80 a lo dòvro nen an soe conversassion. Contut a-i na j'é vàire ch'a lo capisso o ch'a na conòsso dle frase ch'a dòvro an quàich ocasion. Dòp giumai doe generassion da j'imigrassion da j'àutre region j'orìgin familiar për sossì a-i na fan pi gnente. A son dle costume individuaj o dël grop. As peul notesse, però, 'dcò un pi gròss anteresse për lòn ch'a l'é la lenga e esse bon a parlela. Le motivassion a son le pi diferente: chëriosità, arserca dle rèis, vorèjsse diferensié da 'n mond manaman pi uniformà. I l'hai mai trovane un ch'a s'anteressèisa dël piemontèis për tiré su dij murajon an tra chiel e j'àitri. Ant le sità pi cite e ant ij pais, anvece, anté ch'a-i é pi 'd giovo ch'a parlo 'l piemontèis, a-i é doi ategiament: da na banda l'anteresse për n'aspet ëd soa identità, da l'àutra l'indiferensa për lòn ch'a l'é considerà mach un mojen espressiv, ma sòn a l'é 'l midem comportament ëd chi ch'a stà a Firense e a-j na fa gnente dla blëssa dla sità. I l'oma peui chi ch'a chërd ëd modernisesse e dë mnì pi afaità s'a arfuda ël piemontèis («Il dialetto a me mi fa schifo») e peui sumioné 'l folklòre da importassion. Sicura, l'anteresse pr'ël piemontèis a l'é pi fòrt ant ij giovo scolarisà e ch'a conòsso 'd pi 'd lenghe. A-i é pa 'd conotassion polìtiche: a-i era dij bòcia ativ për la valorisassion ëd la lenga tan a Tor Vergata dal Papa che a Génoa ant le manifestassion antiG8.

Comportament compagn ëd costi as na treuva 'dcò 'nt j'àitre realtà europenghe. Ël dëspresi a l'é la posission pi spantià ant j'ambient tant centralisà o ch'a serco na promossion social. An fransèis patois, paròla ch'a l'ha tanta fortun-a an sle nòste montagne, a veul pa dì dialet o lenga minoritaria, ma a marca na version grossera dla lenga nassional, un parlé mach bon për le canson dla piòla e le barzlëtte, mojen d'espression dij vej e dij bërgio. A l'é 'n paradòss, a l'é pròpi da coma che certi a dòvro le lenghe regionaj ch'a së spantio st'idejasse. A-i é gnente ch'a fasa 'd pi 'd dann che un còmich ch'a s'esibissa an senëtte con dialet e acsan esagerà e anventà, o na fera anventà da la sèira a la matin ciamà La Fera dij Cossòt, ch'a fa mnì 'l làit ai ghëmmo con riproposission ëd vita medieval-setsentesch-paisan-a con ël geòmetra e la bidela taparà an costum, o ij proverbi e le manere 'd dì vendù coma 'l sust dij bej temp d'un bòt. «Ël folklòre a l'é la mòrt taparà da festa», a disìa un breton.

A l'ancontrari a l'é dmostrà che un mojen important ëd valorisassion a l'é smon-e na parlada, a randa dla lenga nassional e a le lenghe forestere, ant j'ocasion parèj dle manifestassion ësportive (an Irlanda ij nòm dle squadre 'd fótbal soens a son an gaélich), j'esposission d'art (an Catalògna a së scriv d'archeologìa mach an catalan), le gròsse fere alimentar e torìstiche: ste-sì a son dj'atività colturaj e sociaj ch'a son bin stimà e che manaman a spantio l'idèja dla valorisassion e tua lenghìstica.

N'àutra gavada comun-a a l'é afermé che le lenghe minoritarie a s-ciapo le nassion. An realtà, la situassion an Euròpa a dimostra l'ancontrari: a l'é quand ch'a scomparisso ch'a-i nasso ij conflit. Dòp ël cas dla Jugoslavia, anté che croat, serb e mussulman a parlo la midema lenga, j'esempi dl'Irlanda dël Nòrd e dij Pais Basch a son significativ: ant l'Ulster pi gnun a parla 'l gaélich da tërsent agn e 'l basch a l'é conossù da gnanca na quarta dla popolassion. Anté che 'nvece la lenga a l'ha na bon-a salute, an Gàles, Catalògna, Friesland, gnun a magina për da bon ëd dëstachesse da la Gran Bretagna, da la Spagna, da l'Olanda. A l'é capitame 'd discute 'd sòn con na fija scossèisa: sta-sì a l'avìa dle posission motobin antinglèise, ma a pensava che l'idèja 'd goerné 'l gaélich dle Highlands a fussa na drolarìa ch'a farìa dij dann. A l'é chi ch'a l'ha nen n'identità chi ch'a intra an conflit con j'àitri quand ch'a serca soe rèis, antramentre la lenga a l'é un dj'element pi amportant dl'identità d'un pòpol. Sti nassionalista a dòvro la lenga local parèj 'd na bandiera, a-j fan quàich slògan, ma squasi sempe a la conòsso pa (a së straco a amprende na lenga, na person-a bilenga a l'é pi toleranta përchè quand ch'a pensa a peul felo an doe manere…) e a la buto mach a soe assion pi grossere (s'i beicoma bin, i tornoma al folklòre danos).

Ëd fenòmen parèj a-i na j'é con ij fieuj d'imigrà extraeuropengh: an Fransa e an Inghiltèra ij problema con le comunità forestere a son nà con la sconda generassion d'imigrà, quand ch'ij giovo a l'avìo perdù soa identità e a parlavo pi nen la lenga, ma da l'àutra as sentìo pa completament fransèis o anglèis. I son restaje sburdì quand ch'i l'hai sentù na peruvian-a a dì che sò fieul a l'avrìa pa pi parlà lë spagneul ma mach l'italian. An Àfrica un dij fator ch'a l'han dësblà le socetà locaj a l'é ant le sità 'l chité j'idiòma locaj për dle forme semplificà d'anglèis o 'd fransèis (se i sè an camin ch'i scote doi imigrà da l'Àfrica subsaharian-a iv n'ancòrze ch'a parlo na lenga europenga).

A peul capité 'd trové dla gent ancarpionà 'd quàich parlé foresté, dla gent ch'a s'indigno përchè a gòdo pa dla tua dlë «Stato oppressore colonialista» (vàire scrite an basch ch'a-i é an certi ambient!), ma a vardo con la spussa sota al nas la situassion ëd sò teritòri. Conòsse, arvaluté, parlé la lenga local a pòrta pa dij vantagi imedià, ma a dà na vision dël mond al plural, andoa a stan ansema diverse identità e manere 'd vëdde 'l mond (përchè a l'é sòn lòn ch'a fa na lenga). A lo san tuti che na masnà a peul parlé perfetament dontré lenghe e sossì a fa pi lest ël sò pensé. A dì la vrità, ch'as disa pa «Parli allora inglese o francese», da già che squasi gnun genitor a-i parla bin!

Quand che na lenga a l'é pi nen parlà, a l'é mòrta për sempre e ansema a chila a l'é andasne n'interpretassion dël mond. L'estinsion ëd na lenga a l'é parèj dl'estinsion ëd na spece animal, a l'é ireversìbil. I soma che dle milen-e d'idiòma ant ël mond a van a scomparì dnans dla fin dël sécol. A van a intervisté na veja d'otant'agn ch'a l'é l'ùltima a conòsse 'n parlé dla Patagònia, ma a smija che gnun a s'ancòrzo che sossì a l'é an camin ch'a-i càpita 'dcò an Euròpa. La pluralità lenghìstica a l'é sempe stàit un dij caràter colturaj dël nòst continent e àora a l'é an camin ch'a spariss, ma pr'esse sostituì da còsa? Da n'uniformità a l'american-a? Da la ridussion dle lenghe a sempi mojen espressiv, coma un pàira dë scarpe ch'as peul cambiesse e campé via? A l'é na prospetiva inédita ant la stòria coltural continental.

Lòn ch'as fa për sodisfé l'anteresse për na lenga minoritaria coma 'l piemontèis o fela nasse? I l'oma già vist l'amportansa 'd buté 'l piemontèis a randa dl'italian ant le manifestassion colturaj e la necessità 'd dësmencé 'l folklòre. Ma 'l problema pi gròss a l'é che giumai la pi part ëd coj ch'a l'han meno 'd trant'agn a l'é pi nen bon-a a parlé la lenga e che tanti a la capisso pa, tant a l'é vèi che quàich vira a l'é capitame d'esse pijà për fransèis da dij bocet dai cognòm pròpi piemontèis. A l'é pa pi na situassion limità ai giovo, al di d'ancheuj sossì a va bin ëdcò pr'ij pare e mare: as son sautasse doe generassion, aveniment disastros (ant ël Gàles però i l'oma ij grand ch'a parlo galèis, ij pare ch'a l'han perdulo për l'anglèis, ma j'anvod a l'han arcuperalo).

Ij grand a l'han un comportament tìpich ant ij confront d'un bòcia ch'a veussa parlé piemontèis. Prima 'd tut a lo svergno fin-a squasi a felo chité al pi cit boro 'd pronunsia o 'd gramàtica. Peui a jë smon-o le paròle pi baraventan-e dël gergon e ij proverbi pi fòj. A la fin, a fan: «Ma 'l piemontèis a cambia da 'n pais a l'àut, is capioma pa». Coma tute le lenghe, ël piemontèis a l'ha dle variante locaj, ma le diferense a son franch cite (pi cite 'd cole 'd tante dj'àutre lenghe nen ufissiaj) e a-i é l'intercomprension. L'àrea piemontòfona (le provinse 'd Turin, Biela, Vërsèj, Coni. Ast e mesa provinsa 'd Lissandria) a l'é 'd dimension medio-ampie rispet a j'àutre lenghe minoritarie europenghe: pi gròssa dj'àree 'd lenga basca e frison-a, uguala a cola breton-a e galèisa, pi cita mach a catalan e ocitan.

Gavà st'ampediment butà da l'autodenigrassion anreisà ant lë spìrit dij piemontèis, lòn ch'a treuva un giovo? A son fondamentaj j'inissiative organisà da la Region (ch'a l'ha diciarà 'l piemontèis lenga regional), da j'aministrassion locaj e da vàire associassion coma 'l mostré la lenga ant la scòla dl'òbligh (pi che na senten-a 'd classe da le barere 'd Turin ai paisòt dle Langhe) a randa dij cors pr'ij giovo pi grandòt e pr'ij grand. Ma ij cors a son pa 'd sicura la manera ch'a atira 'd pi, bele ch'a-i sia na bon-a presensa giovanil e che quaidun dj'ansegnant a l'avèissa meno 'd trant'agn.

Fin na produssion literaria 'd valor àut a l'é pa pro. Dël 1904 ël poeta provensal Frederi Mistral a l'ha vagnà 'l Nobel për la literatura, ma ancheuj na gròssa fëtta dla Fransa meridional a parla pi nen ocitan. A fa pa da manca conòsse l'anglèis për lese Shakespeare (ma 'me ch'as fa a capilo an tradussion? e peui, sarì-lo sempe Shakespeare s'a l'avèissa scrivù 'nt un'àutra lenga?). Ma ste-sì a son considerassion vàlide mach për n'élite e donca inùtij dautut. Le condission dla poesìa "dialetal" italian-a a son disastrose. Vàire autor a son nen bon a parlé la lenga ch'a scrivo e a-i na fa gnente: la soa a l'é na lenga interior, esclusivament poética. A l'é 'l trionf dla decadensa dl'espression uman-a! E d'àutra part, ël valor ëd n'idiòma as vàluta pa da soa produssion poética, ma da la pròsa. Ant la pròsa ij soget tratà e le modalità espressive a son për fòrsa pi varià, ansi, infinì e a son la palestra dla lenga. Ël piemontèis a gòd ëd na bon-a posission, con soa bondosa produssion an pròsa 'd test literari, giornalìstich, sientìfich, ma coma fé për feje seurte dai gir dij piemontesista?

Ël boneur ëd na lenga i 'l l'oma quand che soa amportansa a l'é arconossùa universalment da la popolassion, a l'é un fator normal, quand ch'a-i é pi nen da manca d'associassion e 'd lej ëd valorisassion e tua. An col moment as parla pi nen ëd lenga minoritaria. A l'é 'l cas (bel) dël catalan ant j'ùltim agn. Ëdcò përchè s'a-i é nen un sentiment spantià, tute le lej a son inùtij. Da otant'agn l'Irlanda as dà da fé për la difusion dël gaélich, ma mach ël 7% dij sò abitant a l'é bon a dovrelo. Ël bilenghism an Val d'Osta a l'é giumai un fàit mach aministrativ: vàire ansëgne dle boteghe a son an fransèis an Osta (a l'é sent agn J-B. Cerlogne, ël pare dël valdostan, a scrivìa profétich: «Quand ch'as n'andrà 'l patois, a-i andrà dapress ël fransèis»)? A l'ancontrari, an Friul la vitalità dla lenga a së s-ciàira da le scrite an furlan an sle muraje e ant jë strission dl'Udinese. A l'é an coste espression scrite informaj ch'as vàluta la situassion lenghìstica d'un pòpol. Ma alora, cò fé?

A l'é la mùsica che an Italia e an Euròpa a l'ha portà al dësviesse dle lenghe e dle colture locaj ant un ëscambi bel e fosonant con j'àitre realtà nassionaj e locaj. Pa tant la mùsica tradissional e 'd sicura nen le pericolose canson nostàlgiche e da piòla, ma la mùsica moderna, cola ch'as peul scotesse a la radio, ant un local ai Murass o sonà da 'n grop giovanil a na festa scolàstica. Pensoma mach a lòn ch'a l'han fàit për soe lenghe e dialet ël genovèis De André, ij Modena City Ramblers, ij comasch Van De Sfrooss, ij napolitan Alma Negretta e 99 Posse, j'ocitan Lou Dalfin, ij grop heavy metal e punk basch e breton. Ël Piemont, ansema a dj'ecelent grop ëd riproposission dla mùsica tradissional, a l'ha dle band franch anteressante coma ij Mau Mau (andoa però ij test an piemontèis a son mach un-a dle componente 'd soa produssion) o ij Farinej dla Brigna (dle vire fin-a tròp grass), quandi tanti dj'àitri a son pa stàit bon a afermesse fòra da 'n cit àmbit local. Ij concert e le feste organisà da tante associassion e sperimentalment da quàich local a l'han avù un gròss sucess pròpri an tra ij giovo ch'a sarìo mai avzinasse a n'atività 'd tua e valorisassion ëd na lenga minoritaria. A l'é cost-sì 'l percors ch'a peul pijé 'n grop musical giovanil, smonenda soa mùsica ma con ij test an piemontèis. La rest a vnirà daspërchila.

La lenga a l'é un dij mojen pi amportant pr'evidensié soa identità ant un mond viaman pi chërios e ricetiv an vers le sìngole personalità coma scu contra n'uniformità dilaganta.

A venta desse n'andi.

(Fransësch Rubat Borel)